Associazione "La Mano Sulla Roccia"

LUNEDI' 13 GENNAIO 2020 - ORE 18,15 nella sala teatro della Parrocchia S. Maria della Libera INCONTRO SU "Esperienze Carcerarie" - Trascrizione

LUNEDI' 13 GENNAIO 2020 - ORE 18,15 nella sala teatro della Parrocchia S. Maria della Libera INCONTRO SU "Esperienze Carcerarie" - Trascrizione

 

 

ESPERIENZE CARCERARIE

 

presentazione del libro di PIETRO IOIA "LA CELLA ZERO" con commento del sociologo Prof. ARISTIDE DONADIO e l'intervento del filosofo Prof. GIUSEPPE FERRARO

 

PIETRO IOIA

 

Mi chiamo Pietro Ioia. Sono un ex detenuto che ha trascorso in carcere 22 anni. Da pochi giorni sono stato nominato garante per i diritti dei detenuti dal sindaco Luigi De Magistris.

Nel corso della mia detenzione sono stato portato due volte nella "cella zero" che si trova nel carcere di Poggioreale dove venivano puniti i detenuti anche per futili motivi, per esempio, per aver tenuto alto il volume del televisore o per una lite scoppiata tra due detenuti che comportava la punizione di tutti gli occupanti della stessa cella...

Nella cella dove stavo eravamo in 9, ma c'erano anche celle che contenevano fino a 15 detenuti. Lì passavamo 22 ore al giorno rinchiusi. La passeggiata, peraltro in uno spazio ristretto, era consentita per un'ora la mattina e per un'altra ora verso mezzogiorno.

Il 70% dei carcerati sono persone povere che non possono pagare un avvocato. Molti non dovrebbero nemmeno stare lì per non aver commesso gravi crimini. Magari avevano rubato per fame... Dovrebbero, quindi, scontare delle pene alternative, ma non sanno a chi rivolgersi e nessuno si occupa di loro. Il restante 30% è costituito da quelli che hanno compiuto reati gravi ed anche loro se la passano piuttosto male...

Nel 2014, dopo aver subito l'ultima punizione in quella cella, denunciai l'accaduto alla procura della Repubblica.

La cella non numerata era da noi chiamata " 'o zero". Lì i detenuti venivano denudati e picchiati con manganelli, con calci, pugni, asciugamani bagnati...

Dopo la mia denuncia, ne arrivarono al giudice altre 150 da parte di detenuti che erano stati massacrati di botte. Si calcola che nell'arco di 30 anni nella cella zero siano passati 50.000 detenuti!..

Il giudice mi convocò per chiedermi perché fossi stato portato in quella cella. Gli risposi che una delle due volte fu perché ci avevano sorpresi a giocare con delle carte napoletane non consentite in carcere. In cella eravamo in nove e fummo tutti portati al piano terra dove il capo posto voleva a tutti i costi sapere a chi appartenesse quel mazzo di carte. Non apparteneva ad alcuno dei presenti perché era stato lasciato da un detenuto trasferito in un altro carcere. Quindi, nessuno si accusò o fu accusato di essere il proprietario di quelle carte.

Nonostante ciò ci portarono ad uno ad uno nella cella zero. Tra di noi c'era un detenuto anziano ultrasettantenne che chiamavamo "zio Gaspare". Era di Volla. Non aveva mai giocato a carte perché non lo sapeva fare. Un giovane compagno di cella che tentò di spiegare che zio Gaspare con quelle carte proprio non c'entrava, ebbe uno schiaffo così violento da ritrovarsi col labbro spaccato perché, a detta del capo posto, non si sarebbe dovuto permettere di fare... l'avvocato difensore del vecchietto che così subì la stessa sorte degli altri nella cella zero.

Quando dopo essere stato picchiato passai dal medico, questi mi fece alzare la maglietta e abbassare i pantaloni. Mi chiese se avevo ferite o fratture e alla mia risposta negativa, mi congedò raccomandandomi di dire, se eventualmente mi fosse stato chiesto, che i lividi me li ero procurati cadendo per le scale.

Quella sera tornammo in cella come degli automi e ad uno ad uno facemmo la stessa cosa: ci guardammo i lividi nello specchietto e poi ci infilammo sotto le coperte senza dire una parola.

Quella notte dentro di me infierii contro la società, le istituzioni, il governo, i politici... Mi chiedevo come fosse possibile permettere tutto quello che ci era stato fatto...

Ora, come garante, posso entrare nelle carceri, cosa che ho fatto due giorni fa a Poggioreale e a Secondigliano. Oggi sono stato chiamato dalla Direzione del carcere di Poggioreale e sono stato informato che ci sono centinaia di domandine di detenuti che vogliono parlare con me.

Quel carcere è una specie di campo di concentramento con muri scalcinati e docce fatiscenti che, vecchio ed obsoleto,  andrebbe abbattuto. Il carcere di Secondigliano è migliore.

I detenuti mi chiedono aiuto perché sanno che posso capirli ed io voglio essere qualcosa di più di un garante. Voglio conoscere quelli che non sono in grado di pagarsi un avvocato ed aiutarli anche economicamente. C'è già uno staff di avvocati che si sono messi a disposizione gratuitamente. Vorrei anche fornire biancheria e vestiario ai carcerati.

Due anni fa, entrai nel carcere di Poggioreale insieme ai radicali in visita. Incontrammo un ragazzo in una cella di isolamento. Gli chiesi perché fosse lì e il ragazzo rispose che nessuno lo voleva come compagno di cella perché non aveva soldi. La crisi si fa sentire anche in carcere. Solo una minoranza oggi dispone di risparmi. Quel ragazzo, stanco di essere respinto ripetutamente da tutte le celle, se ne era andato in una di isolamento. Avrei desiderato dargli un piccolo capitale per farlo accettare dagli altri e poi pregare il direttore del carcere di farlo lavorare e guadagnare qualcosa. Essere respinto in quel modo non è umano!

Quando nel 1982 arrivai per la prima volta nel carcere di Poggioreale, era in atto una guerra tra cutoliani e Nuova Famiglia sia fuori che dentro il carcere. Mi chiesero di quale delle due fazioni facessi parte. Io non appartenevo a nessuna delle due. Ero lì per spaccio di hashish. Mi chiesero allora dove abitassi e, saputo che venivo dal centro storico, fui ritenuto affiliato alla Nuova Famiglia che dominava in quel quartiere. Così fui messo in un padiglione dove c'erano boss e affiliati della Nuova Famiglia.

Io ero giovane (oggi i giovani in carcere sono la maggioranza, ma allora non era così). I giovani in carcere facevano i "foderi", cioè custodivano le pistole dei loro boss.

Quando uno di quei ragazzi uscì dal carcere, il boss del mio padiglione mi chiamò per sostituirlo a custodirgli la pistola. Cercai di rifiutare perché non avevo mai visto una pistola né sapevo come usarla, ma il boss mi disse che dovevo semplicemente tenergliela e all'uso ci avrebbe pensato lui (fortunatamente non fu mai usata).

All'epoca il carcere non era gestito dall'amministrazione penitenziaria, ma dai camorristi. Un giorno arrivarono dei carabinieri, i NOCS, che perquisirono le celle, ci fecero spogliare, ci picchiarono, ci fecero correre nei corridoi inseguiti dai cani. Un detenuto fu morsicato nelle parti intime. Ricordo che non ebbe il coraggio di guardarsi. Chiese a noi di farlo... Dopo ci portarono nelle "compresse" che erano depositi in cui venivano riposte suppellettili varie. Furono svuotate e noi fummo messi lì e tenuti per due settimane. Eravamo quasi un centinaio di detenuti.

In ogni padiglione c'era il lavorante di sezione che ogni sera veniva a prendere la pistola che custodivo e me la riportava la mattina. I lavoranti di sezione conoscono tutto ciò che avviene in carcere. Portano i pizzini nascondendoli in bocca (i pizzini sono sempre esistiti).

Il lavorante di sezione del mio padiglione fu quindi interrogato e, messo alle strette, denunciò tutti i traffici e così anch'io fui accusato di detenzione di armi. Fui prelevato dalla "compressa", picchiato, torturato e portato incappucciato in una cella in penombra dove era stato messo un cappio e uno sgabello. Pensavano che nascondessi altre armi oltre a quell'unica pistola che avevano ritrovato e così fui minacciato di morte se non avessi parlato. Sudavo, tremavo per la paura, non riuscivo a trattenere le urine. Avevo 19 anni!... Non sapevo se quelle erano solo minacce o se mi avrebbero veramente ucciso. Di tanti impiccati a Poggioreale è difficile capire se sono suicidi o vittime...

Continuarono a torturarmi per farmi parlare, ma io non sapevo altro che il posto in cui nascondevo la pistola del boss che me l'aveva affidata. Ricordo che attraverso uno spiraglio vidi appesa al muro la fotografia di Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica e pensai che anche lui era stato in carcere...

Prima di essere nominato garante sono stato per 15 anni fuori dal carcere a protestare e a lottare insieme ai parenti dei detenuti di cui ero diventato un punto di riferimento. Non avrei mai pensato di diventare garante in seguito ad una domandina compilata da una ragazza che stava svolgendo una tesi di laurea con me. Per la verità non ci tenevo ad essere un garante perché ero un attivista e, come tale, mi sentivo più libero. Ora comandanti, ispettori e direttori mi consigliano di essere più diplomatico, ma io difficilmente potrò esserlo perché non so esserlo.

In una delle visite a Poggioreale vidi un detenuto anziano in pigiama. Chiesi al comandante che mi scortava e mi teneva sotto stretto controllo, perché quell'uomo non fosse vestito. Mi disse che c'erano due giubbini imbottiti in deposito che non potevano essergli consegnati perché precedentemente in giubbini di quel tipo era stata trovata della droga. Mi ribellai e gli chiesi di adoperare i cani o qualsiasi altro mezzo per accertarsi della presenza o meno della droga nei giubbini e di dissequestrarli in caso di esito negativo e darli al povero vecchio. Mi offrii di dargli il mio cappotto, ma mi fu risposto che non erano tenuti a distribuire cappotti.

Qualcuno precedentemente aveva realmente messo della droga nei giubbini che entravano nel carcere, ma lì se uno sbaglia, pagano tutti. La polizia penitenziaria è ruvida, diciamolo pure: è fascista. Ce l'hanno con chi ha sbagliato e per questo sta in carcere a dare fastidio a loro.

Per espletare il mio compito di garante (non retribuito) devo spesso assentarmi al lavoro per andare dove vengo chiamato e ho fatto presente questo al mio datore di lavoro. Essere garante è diventata per me un'autentica missione perché nelle carceri ci sono tanti poveracci, mica ci sono i politici corrotti che hanno magari rubato milioni! Ne avrò visto al massimo un paio nei miei 22 anni di galera. I politici ci vanno per un po', poi vengono messi agli arresti domiciliari.

A mio carico sono anche le spese di trasporto per recarmi alle carceri o dove vengo chiamato. Mi arrivano le richieste delle famiglie dei detenuti che mi chiedono di andare a constatare la condizione dei loro cari perché magari uno voleva impiccarsi, un altro mostrava segni di percosse, ecc.

La violenza nelle carceri non scoppia solo tra detenuti. Recentemente sono stato chiamato da un giornalista perché si era saputo che un detenuto aveva assalito una guardia penitenziaria nel padiglione Milano. La situazione in quel luogo è terribile. Stanno meglio i terremotati. Si sente puzza di carne umana putrefatta. Le docce sono costituite da getti d'acqua che escono da buchi nei muti fradici. la tonaca cade a pezzi. Niente viene riparato. D'inverno tra quelle mura umide ci si gela. Non esiste riscaldamento.

Naturalmente ho rimproverato il detenuto per quello che aveva fatto, ma bisognava chiedersi perché lo aveva fatto. Io prevedo che a Poggioreale succederà qualcosa di grave perché i detenuti sono allo stremo. Ho visto celle piccolissime in cui sono ammassate anche 15 persone. E' disumano!

Se in una cella che può contenere 4 persone se ne mettono il doppio, succede che essendo solo quattro le bilancette, persino i vestiti di ricambio non trovano posto e vengono messi sotto i letti in sacchi della spazzatura.

Vorrei far capire alle autorità che chi esce dal carcere dove ha vissuto per anni in queste condizioni, è molto arrabbiato ed è più criminale di quando vi è entrato.

Onestamente devo dire che prima di essere nominato garante mi sentivo molto più libero. Ora posso entrare nelle carceri, ma prima protestavo fuori più liberamente.

Alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia, ho detto che nelle carceri la situazione non è più sostenibile, che le celle sono sovraffollate anche perché i tribunali hanno una mole di lavoro che non riescono a smaltire. A volte basta un documento che non arriva in tempo e l'uscita dei detenuti dal carcere è rinviata. Lei ha fatto da paciere tra me e la polizia penitenziaria che non mi accettava. Persino Salvini è venuto nel carcere di Poggioreale a dire che io non ero all'altezza di fare il garante. La Presidente, invece, ha preso atto della mia nomina, ma mi ha detto di non avvicinarmi troppo ai detenuti e di non parlare... troppo con loro. A questo punto mi sono ribellato perché se sono il garante dei detenuti è di loro che mi devo occupare. A Poggioreale mi sono ostili. Quando parlo con un detenuto, i comandanti mi si mettono accanto e tendono l'orecchio per sentire che cosa ci diciamo.

Ma io vado avanti perché, come ho già detto, ho assunto questo incarico come una missione da compiere.

 

ARISTIDE DONADIO

 

Innanzitutto devo dire che sono contento di essere qui e di trovarmi a presentare questo libro davvero coraggioso che va letto perché contiene denunce di situazioni paradossali che noi dall'esterno non siamo neanche in grado di immaginare. E' importante che ci siano queste interazioni culturali, come i testi sul carcere in Italia.

Lo dice anche Carmelo Musumeci, un ergastolano che ora si trova in una condizione di semilibertà, dopo essere stato condannato ad un ergastolo ostativo che pochi conoscono. Non tutti gli ergastoli sono considerati "all'italiana", cioè che si interrompono dopo meno di 30 anni di carcere. Dal 1992, dopo gli attentati a Falcone e a Borsellino, esiste l'ergastolo ostativo e noi, come i giapponesi che ignorano che nel loro paese esiste la pena di morte, non sappiamo che in Italia esiste questo tipo di ergastolo che Papa Francesco ha definito "pena di morte nascosta". Chi viene condannato all'ergastolo ostativo deve morire in carcere senza alcuna possibilità alternativa.

Carmelo Musumeci, dunque, dice che è bene che ci siano queste testimonianze perché in Italia non esiste ancora una letteratura carceraria, cioè mancano i resoconti che effettivamente formino nell'opinione pubblica quella coscienza comune, quella coscienza civica per cui la condizione carceraria non può essere un corpo estraneo alla società. Quello che accade nelle carceri ci torna indietro in tanti modi diretti ed indiretti. Allora è importante che si formi questa cultura carceraria.

Qualche esperienza in merito è stata fatta negli anni '90 in Italia con la cooperativa "Sensibili alle foglie" (fondata da Renato Curcio) formata da detenuti ed ex detenuti che curano libri e racconti sulla realtà carceraria italiana e lì vi lavora anche Nicola Valentino delle Formazioni Comuniste Combattenti, ex ergastolano, ora in libertà condizionale. Di Valentino c'è il libro "Ergastolo", una denuncia di questa pena che viene fatta per la prima volta. C'è poi il libro di Beppe Battaglia, volontario carcerario, "Carcere e cittadinanza" che parla del rapporto stretto in un paese tra le condizioni carcerarie e il livello di civiltà e di cittadinanza.

Sempre di Beppe Battaglia c'è "Le tre libertà" da poco uscito e altri libri di Carmelo Musumeci interessantissimi come "L'uomo ombra" e "Nato colpevole" che ci fa capire come noi viviamo in una società che crea una quantità di situazioni al limite dell'esistenza della dignità umana a causa di uno Stato assente per una volontà precisa, politica, di creare delle sacche di povertà, un esercito di disoccupati e di manovalanza e, per quello che sappiamo, queste cose sono addirittura voti di scambio disponibili, forniti dalla camorra che specula proprio sulle sacche di povertà. Quindi, non può essere casuale questa latitanza dello Stato.

Allora, ci sono situazioni criminogene, di sperequazione, di povertà voluta, mantenuta, studiata, perché si creino, appunto, delle situazioni funzionali ad un certo sistema. Quindi, non è solo criminogena la società, ma è criminogena la situazione carceraria, è criminogeno un carcere studiato evidentemente per aumentare il tasso di criminalità e di devianza e non per smontarlo.

Il cardinale Carlo Maria Martini, una figura di alto spessore, un grande intellettuale, in un testo scritto insieme a quattro mani con l'Associazione Antigone "Il vaso di Pandora" (andato esaurito) dice proprio questo e, cioè, di come il carcere sia concepito appunto come un vaso di Pandora, un contenitore negativo in cui mettere tutti gli scarti della società, quelli di cui non è stata capace di farsi carico, altrimenti non si spiegherebbe come il 30% dei detenuti siano legati a reati dovuti alla tossicodipendenza e, quindi, non dovrebbero trovarsi in carcere ma in altre realtà, e un altro 30% dei detenuti ad atti legati alla clandestinità, all'immigrazione.

Quindi, sono questioni di cui dovrebbe farsi carico lo Stato che, invece, getta nella situazione carceraria, come soluzione, tutti i mali, non solo, ma addirittura si ha l'illusione di mettere nel carcere il male in quanto tale, di poterlo così allontanare da noi, l'illusione che questo contenitore negativo possa togliere da noi quelle che sono le nostre contraddizioni, le nostre paure, i nostri fantasmi, le nostre ansie, i conflitti irrisolti...

Il carcere diventa, quindi, un luogo di proiezione per eccellenza di tutta la miseria umana di cui non siamo stati capaci di farci carico e di indagare con profondità dentro di noi. Non solo le contraddizioni sociali, economiche, politiche, ma anche, oserei dire, quelle di tipo esistenziali, psicologiche di un sistema, quello attuale, che crea sperequazioni. Abbiamo l'1% che detiene il 90% della ricchezza mondiale!

Io ho avuto una lunga esperienza della realtà carceraria come Commissario nazionale per l'educazione ai diritti umani. Mi sono occupato proprio di questioni carcerarie, delle violazioni sistemiche e sistematiche dei diritti umani. L'Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea per i diritti dell'uomo, anche recentemente, proprio a proposito dell'ergastolo ostativo, non solo, ma anche per le condizioni disumane e di sovraffollamento, tant'è che sia il 41 bis (carcere riservato alla criminalità organizzata) che l'ergastolo ostativo sono stati paragonati alla tortura cioè a condizioni inumane, crudeli e degradanti. Recita così il concetto di tortura.

L'Italia fatica ancora a rivederlo ed ha approvato in merito qualcosa di molto blando che poco ha a che fare con il concetto di cui sopra.

A dicembre scorso, con Amnesty, abbiamo fatto a Roma la prima iniziativa proprio sull'ergastolo ostativo e la dignità dei detenuti.

Anche il prof. Giuseppe Ferraro, docente di filosofia morale alla Federico II, ha avuto tante esperienze carcerarie e potrà dirci delle cose interessanti. Prima di cedergli la parola vorrei dire una cosa importante: la situazione carceraria è talmente penosa che non solo determina tutti gli atti autolesionistici e suicidi dei detenuti, ma fa talmente schifo (lasciatemi passare il termine) da fare male anche ai poliziotti penitenziari. Pochi dicono che si verificano suicidi anche tra i poliziotti penitenziari perché è una vita talmente brutta quella che fanno da diventare loro stessi vittime del clima che, in qualche modo, hanno contribuito a creare come per una nemesi storica o un effetto boomerang.

Le cose non vanno bene perché abbiamo forze politiche che sanno parlare molto bene alla... pancia degli elettori per ottenerne i voti. Fa molto più comodo agitare lo spauracchio del mostro, del criminale, del pericolo sociale che porta ad agire sul lato securitario, apparentemente, perché di sicurezza reale non c'è niente. In questo modo si peggiora solo la situazione.

 

 

Bisogna cominciare a fare discorsi che veramente tutelino il rispetto dell'art. 27 della Costituzione che punta alla riabilitazione del detenuto. Dovremmo avere delle carceri completamente diverse. Gandhi immaginava il carcere come un ospedale perché la cattiveria non esiste, ma esistono le condizioni di sofferenza in cui si trova un individuo. Alla fine - come dice Donald Winnicott - nell'articolo "La delinquenza come sintomo di speranza", l'atto di delinquenza, l'atto deviante è l'unico momento in cui ci accorgiamo della persona che lo compie. E' come se quella persona dicesse: "Adesso che ho fatto questo, vi rendete conto finalmente che esisto?". E' un grido inconscio, una richiesta inconscia di aiuto, ma anche un tentativo disperato di ritornare allo stato precedente alla condizione di desolazione che per tanti anni ha vissuto.

Allora il carcere dovrebbe davvero essere concepito diversamente. Lo diceva pure il magistrato di Venezia, Sandro Marchione: "Il carcere non può essere riformato. Il carcere va raso al suolo".

Il carcere va ripensato completamente. Deve essere concepito come comunità dove le celle siano aperte, dove ci sia la possibilità dell'autogestione da parte dei detenuti, dove, quindi, sia diverso anche il rapporto con l'équipe fatta da psicologi, educatori, ecc., ma in rapporto adeguato, non di 1 su 2000...

Il poliziotto penitenziario, secondo una riforma del 1990, dovrebbe essere inserito in quest'ambito educativo. Invece, preferiamo avere carceri come quelle di Poggioreale, dove la recidiva supera l'80% mentre nelle carceri comunità, la recidiva scende al 30%. Questo conviene a noi. E' un atto paradossalmente egoistico la riabilitazione del detenuto perché così non rimettiamo in circolo delle persone che tornano a delinquere, ma persone attive che vengono inserite nella società e tornano utili anche a noi.

Ancora un'ultima cosa: la formazione dei poliziotti penitenziari è assolutamente inadeguata. Ha come obiettivo l'idea securitaria, l'intervento violento. Pietro prima ha dimostrato di essere rimasto intriso del linguaggio del carcere quando ha detto più volte che ai detenuti viene chiesto di fare la "domandina" (e non la domanda), termine di un linguaggio infantile che viene fatto usare a persone adulte che stanno comunque pagando per quello che hanno fatto e che meritano rispetto. C'è questa infantilizzazione, questa deumanizzazione del detenuto. Pietro, nel suo libro, dice anche che in molti casi ai detenuti non è consentito guardare negli occhi del poliziotto, ma bisogna che tengano lo sguardo basso. Che tipo di riabilitazione allora i detenuti possono avere? Siamo in un paese in cui il codice penale (il codice Rocco) è stato fatto nel ventennio fascista e nessuno ha mai pensato di riformarlo. La formazione dei poliziotti penitenziari mira alla violenza, non alla rieducazione dei detenuti. Io ho provato in qualità di Commissario di Amnesty ad inserire un modulo formativo che puntasse ad un intervento non violento, cioè alla prevenzione del conflitto e all'intervento non violento nella situazione di conflitto.

Purtroppo, in Italia non siamo pronti a questo. C'è ancora una cultura fascista. Lo dice anche lo storico Giuseppe Aragno. Una cultura che punta alla deumanizzazione, al concetto di potere come dominio e sopraffazione e non inteso come messa al servizio degli altri dei propri doni, non come cooperazione, non come costruzione di un agire comune... Questo è il tipo di fascismo che dobbiamo debellare, altrimenti torneremo ad avere condizioni di deumanizzazione e violenza strutturale meditata e voluta proprio come disegno politico.

Bisogna quindi puntare alla formazione dei poliziotti penitenziari reimpostandola completamente. Questo dovrebbe essere un obiettivo prioritario!

Ed infine: non esistono selezioni né test attitudinali per reclutare i poliziotti penitenziari. Così non va bene perché sono poi proprio loro a pagarne le conseguenze. Ci sono anche poliziotti penitenziari che fanno onore alla loro divisa e conoscono bene il loro mestiere, ma vengono a trovarsi in pochi in situazioni talmente criminogene che la loro buona volontà non serve a niente.

Quindi, ben vengano iniziative come quelle di Pietro Ioia e ben venga la possibilità di lavorare insieme a lui che è stato coraggioso ad accettare l'incarico di garante. Ma bisogna anche dire che è stato coraggioso il sindaco a fare una nomina scomoda soprattutto per gli addetti penitenziari.

Grazie per l'attenzione!

 

GIUSEPPE FERRARO

 

Io starei ad ascoltare Pietro e farei a meno di parlare perché parlare del carcere per chi lo conosce è una cosa estremamente difficile in quanto si finisce col parlare delle persone che sono nelle carceri. Per questo è importante quello che dice Pietro perché lui non parla del carcere, ma delle persone che vi stanno dentro. Questa è una prospettiva completamente diversa ed è importante ancora di più perché il diritto dei detenuti è quello di prendere la parola, di avere voce, ma non semplicemente per dare un parere rispetto a questo o a quello, ma per dire: "Esisto! Ci sono!". Però la gente fuori non sa niente...

Io frequento il carcere da molto tempo, forse quasi da 30 anni per cui settimana per settimana, la mia vita è scandita dagli incontri nelle carceri. Le conosco tutte ormai e non solo in Italia. Si verifica un tam tam ogni volta per cui sanno già quando arrivo. Questo è divertente (fino ad un certo punto).

Quindi, dicevo che è difficile parlare del carcere senza aver visto dei carcerati, senza aver sentito le voci di quelli che hai incontrato. E allora che dire? Comincerei da questo: in carcere sono tutti... meridionali. Una volta ne ho incontrato uno che parlava con accento settentrionale. Era di Bergamo, però la sua origine era calabrese.

Negli ultimi tempi, nell'incontro con i detenuti mi capita di dire una cosa che mi sorprende: "La pena deve valere la pena". La pena, se non vale la pena, è una punizione. Anche andare a scuola è una... pena, Però poi si dice: "Ne valeva la pena!". Ma uno che esce dal carcere non potrà mai dire: "Ne valeva la pena!" perché nel carcere la pena non vale la pena, cioè non è un diritto.

Questo è un discorso un po' strano, ma la pena deve essere un diritto: quello di poter ripensare se stessi, quello di poter riflettere su ciò che si è stato e su quello che si vuole diventare recuperando la propria autenticità.

Sapete qual è la cosa più toccante su cui pensare per i detenuti? L'infanzia, i genitori, la famiglia. E' da lì che scoprono i valori che hanno. Lo verifico negli incontri bellissimi, straordinari che facciamo e ci tengo a dire che non ho mai preso un centesimo, ho sempre rifiutato un compenso perché in questi casi non devi prendere niente in quanto la sofferenza non può essere assolutamente un mezzo di guadagno.

Se un medico guadagna sulla sofferenza in modo spietato, non è un medico, ma solo uno che fa soldi e basta, così come quello che guadagna su un progetto per i detenuti e non dà loro niente è meglio che se ne stia lontano dal carcere.

La prima domanda che mi fanno i detenuti è questa: "Ma tu che sei venuto a fare qui? Non sei un avvocato, non sei un magistrato, non sei un assistente sociale, non sei uno psicologo... Che cosa ci fai qui?". La seconda domanda è: "Come mi vedi?".

Ma ritorniamo alla pena che deve valere la pena. Per me questo è un punto importante. La pena in carcere non è un diritto ma una punizione. Uno Stato di diritto si misura esattamente dalle sue carceri e dalle sue scuole. Fate attenzione a questo perché è importante: quando le carceri saranno scuole e le scuole non saranno carceri, il grado di democrazia di quel paese avrà raggiunto il suo punto più alto.

Attualmente le carceri non sono scuole e, invece, dovrebbero essere scuole di libertà.

C'è una logica sottile sul carcere sulla quale si sorvola: il carcere non è fatto per i detenuti, ma vale per quelli che stanno fuori perché il reato non sia commesso in futuro. La pena carceraria non toglie il reato, non toglie quello che è stato fatto, non si preoccupa di questo, ma di quello che non si deve ripetere.

Quando il carcere si chiude dietro i detenuti, non ci si rivolge loro più per niente. Non servono a se stessi. E' lo stesso che essere eliminati.

Questa è la logica del carcere. E' lo stesso motivo per cui ad ogni campagna elettorale, trovate chi dice: "Ci vuole il carcere! Mandateli in galera!". Però del carcere non si sa niente. Si pensa che sia una cosa, un istituto. Nel carcere ci sono tante carceri: c'è l'ergastolo ostativo, la S1, la S2, la S3, la sex offenders, ecc.. E non c'è solo il padiglione Milano, ma anche il padiglione Genova, a parere mio, più a rischio degli altri, c'è l'Avellino che è il più terribile... Lì ho fatto degli incontri anche con le famiglie andando nell'area verde che non è stata mai usata.

Nel carcere non ci sono solo i detenuti, ma tante altre persone. Quante ne ho conosciute! Quanti figli che hanno visto portare via il padre di notte, quanti di questi casi! E' bello, quando lungo il percorso che facciamo, qualche padre mi dice: "Professore, dovete conoscere mio figlio!". Proprio ieri Bartolo, dal carcere di Casal di Principe, mi ha fatto questa domanda. Ci andrò anche se mi dicono di stare attento a fare simili incontri. Ma io ci vado perché il carcere è questo: non si deve sapere niente e non devi neanche capire che lì ci sono famiglie e relazioni. Io in carcere ho capito (e l'ho dovuto capire per forza) che la libertà è fatta di legami. E' lì che l'ho capito. Come avrei potuto spiegare la libertà a chi sta in galera? Certo mi verrebbe facile dire che la libertà fa parte di quei valori, di quelle cose talmente importanti che sappiamo tutti, però come il vero amore e la vera amicizia tu li conosci solo quando li hai perduti, così apprezzi la libertà quando non ce l'hai.

C'era un detenuto, ora defunto, che mi diceva: "Professore, lo sappiamo noi che cos'è la libertà, noi che stiamo qui dentro. Quando si è fuori, non si sa che cosa sia".

E' in carcere, dunque, che ho capito che la libertà ha dei legami. C'è uno spiraglio di libertà per i detenuti ed è la qualità dei propri legami che si trova nell'aspetto delle compagne, dei figli, ecc..

Se anche ognuno di voi vuole sapere quanto è libero, deve misurare la libertà dalla qualità dei legami. Se la qualità è pessima, se non volete stare con una persona, la misura scende.

Ma in carcere ci sono dei legami? In carcere c'è una fratellanza subita, non agita. C'è una solidarietà straordinaria. Vi potrei raccontare tantissime e bellissime storie a proposito, come quella del ragazzo schiaffeggiato per aver difeso zio Gaspare che ha raccontato Pietro.

Il problema è che il detenuto non deve parlare, non deve avere voce. L'importante è proprio quello di non conoscere la sua voce. Paradossalmente, portare la voce del detenuto qui è molto più importante che sentirla in galera. I confini di una città sono confini di voci. Una città arriva fin dove ha parole. Oltre quello, è finita.

La gente in carcere non può parlare. Una volta, un boss dei quartieri spagnoli mi ha detto: "Professore, ho capito qua dentro di avere dei diritti. Prima non sapevo proprio che esistessero dei diritti". Il paradosso è, quindi, quello di apprendere in carcere che esistono dei diritti che... non hai! Anzi, capisci i diritti proprio perché non li hai. Ai miei studenti, quando spiegavo l'etica dicevo: "Per capirla, bisogna andare dove l'etica non c'è". E la stessa cosa vale per i diritti che si capiscono solo dove non ci sono. Questo è il punto!

Perché allora vado nelle carceri? Io sono uno di questa città che ha studiato tanto. Ci si chiede se quello che si sta facendo deve essere continuato ad essere fatto o se, invece, si deve cambiare mestiere. Siccome la filosofia si interroga sulle questioni ultime, tu devi portarla nei luoghi ultimi, sui confini per capire. Se la filosofia non ti serve per farti capire, è meglio buttarla via come un giocattolo rotto perché non serve a niente. Dunque, ho studiato e tutto quello che so è mio, ma non è di... me! Questo è difficile! Quello che so me lo hanno insegnato, l'ho letto... Io non potrò mai restituire il sapere a chi me lo ha dato e che ora è mio. Ma il sapere è un possesso senza proprietà. Va restituito a chi non ce l'ha, a chi non l'ha mai avuto. Il sapere, come l'amore è senza proprietà: "Sei mia, ma non di me"... Se l'amore diventa una proprietà, diventa criminale e questo ci spiega tante cose. Il sapere che diventa proprietà è quello del professorone che dice: "Adesso vi dico io come stanno le cose" e le dice a chi già le sa per poter dimostrare di saperne di più.

Allora ripeto: il sapere è un possesso senza proprietà che va restituito a chi non ce l'ha. Nelle carceri io vado esattamente per questo. Non vado a fare assistenza sociale né cado nel rischio (che c'è) di fare del detenuto un eroe. Di fatto... lo è se riesce a stare in una cella del padiglione Avellino a sentire la puzza particolare che c'è.

Nelle carceri ci sono anche bambini, non si finirebbe mai di raccontare... Bisognerebbe vedersi anche solo una volta a settimana per raccontare ogni volta un caso e fermarvisi sopra.

Ora mi viene in mente una bambina, a Foggia... Una bambina in galera... Veramente assurdo!

Quindi, è difficile non correre il rischio di considerare il detenuto un eroe sapendo che, effettivamente, bisogna essere degli eroi per stare lì dentro perché chi entra nelle carceri, da colpevole diventa vittima. Succede questo rovesciamento... Basta poco tempo per diventare una vittima del sistema ed allora capisci che tu già prima stavi in carcere, un carcere a cielo aperto.

Un detenuto, Antonio, mi ha raccontato una cosa sconcertante e cioè che da piccolo dormiva in un cassetto del comò ('o tiraturo). Ma parlava degli anni '70, non degli anni del dopoguerra dove tanti bambini dormivano così. E' quasi naturale che poi sia finito in prigione.

Bisogna lavorare sui detenuti. Vi rendete conto, allora, che il carcere dovrebbe diventare una scuola in cui ritrovare se stessi, diventare quello che autenticamente si è.

Il carcere si basa su una cosa: il detenuto è visto, ma non può vedersi; è guardato, ma non si può guardare. In carcere non ci sono specchi, solo specchietti. Non puoi vederti per intero, non puoi renderti conto del tempo che passa sul tuo corpo.

Ricordo Carmelo che, uscito dal carcere, andò in un supermercato con la figlia a comprarsi un pantalone. Se lo doveva misurare nello spogliatoio. Entrò, ma uscì subito dicendo di averlo trovato occupato da un vecchio. Ma nello spogliatoio non c'era nessuno! Il vecchio era la sua immagine riflessa nello specchio. Non si era riconosciuto perché nel carcere non si era mai potuto vedere.

La pena del carcere è quella di non avere alcuna possibilità di riflettere. E' paradossale, ma Pietro si è autoriflesso nel momento in cui ha ingaggiato una lotta contro le istituzioni. Se quelli che stanno nelle carceri avessero una politicizzazione, sarebbe veramente un casino e ci sono stati momenti in cui questo casino c'è stato.

In carcere bisogna vedere le persone come sono. La prima volta che mi mostrarono un disegno molto bello di un minore, mi dissero, oltre al suo nome, tutto quello che aveva fatto. Io non lo volevo sapere. Per me era una persona. L'ho incontrato e, sapendo quello che aveva fatto, mi è stato difficile. Per questo non volevo sapere niente perché l'autenticità è incontrarsi nel punto in cui ci si trova senza alcun pregiudizio, come sta avvenendo tra me e voi in questo momento.

Se voi pensate al fatto che sono un professore, io non voglio questo. Non ho fatto niente. L'innocenza è il momento in cui noi viviamo aprendoci nella nostra autenticità, senza pensare a cosa abbiamo fatto noi e a cosa hanno fatto gli altri. Non si può fare una distinzione tra il detenuto e la persona libera.

Ricordo un mio amico che faceva l'educatore per i sex offenders. Gli chiesi come facesse a stare lì con pedofili, con persone che avevano ammazzato i bambini. Lui mi rispose: "Potrei farlo anch'io. Mi potrebbe succedere...".

E' una possibilità che può succedere ed allora noi dobbiamo stare con i detenuti come vorremmo tutti quanti stare di fronte a chi incontriamo come se fosse quello il momento, come se fosse quella finalmente l'eternità, per così dire, come se il tempo si annullasse.

Ricordo Antonino che ogni volta mi chiedeva la penna. Gli chiesi perché e lui mi rispose che quando andava a scuola non aveva mai la penna. Era la maestra che gliela dava. Lui a scuola arrivava con la borsa a rete della spesa della mamma. Fu Antonino che mi disse: "Noi queste cose le conoscevamo, ma non sapevamo dirle. Non sapevamo di saperle...". E ci ha portati ad un dialogo di questo tipo.

Sono momenti straordinari. La storia di Carmelo è importante. E' quello che ha parlato fuori del carcere. Lui mi intercettò dopo un video proiettato in carcere e da lì sono nate tante cose. Parlare fuori è quello che ti libera. Liberare la voce delle persone detenute è ritrovare per loro la libertà.

Qual è la ragione allora per cui vado nelle carceri? Il sapere. Il sapere ha la sua ragione. E' la stessa dell'amore: va restituito a chi non ce l'ha, a chi non l'ha mai avuto. Tutto quello che io so del carcere è mio, terribilmente mio...

Io non parlo mai di filosofi. In carcere facciamo filosofia... allo stato puro. Un giorno, però, citai Kant che diceva: "Il cielo stellato sopra di me è la libertà, è la legge interiore dentro di me". Io mi chiedo come fa a capire uno che non vede il cielo stellato, che la legge morale è dentro di sé. In carcere il cielo stellato non si vede. Il cielo del carcere è il soffitto...

Ma un detenuto disse che ricordava il cielo stellato dell'Aspromonte dove di notte non poteva accendersi nemmeno una sigaretta perché era ricercato dai carabinieri. Mi disse che dovevo andare lì con lui a guardare il cielo stellato. "Ma quando?" - gli chiesi. Lui era stato condannato al carcere ostativo. Come lui tante persone non sono mai più uscite dal carcere e alcune vi sono morte.

Ma lui, per consolare me, mi disse che il suo avvocato avrebbe rifatto la causa e lo avrebbe fatto uscire. Però lui il cielo stellato lo aveva già visto...

Dunque, nel carcere la pena non vale la pena, non è assolutamente un diritto e basta.

E' falso dire che il carcere è rieducativo perché non lo è. Fate conto che l'articolo 27 non ci sia...

 

 

 

ESPERIENZE CARCERARIE

 

presentazione del libro di PIETRO IOIA "LA CELLA ZERO" con commento del sociologo Prof. ARISTIDE DONADIO e l'intervento del filosofo Prof. GIUSEPPE FERRARO

 

PIETRO IOIA

 

Mi chiamo Pietro Ioia. Sono un ex detenuto che ha trascorso in carcere 22 anni. Da pochi giorni sono stato nominato garante per i diritti dei detenuti dal sindaco Luigi De Magistris.

Nel corso della mia detenzione sono stato portato due volte nella "cella zero" che si trova nel carcere di Poggioreale dove venivano puniti i detenuti anche per futili motivi, per esempio, per aver tenuto alto il volume del televisore o per una lite scoppiata tra due detenuti che comportava la punizione di tutti gli occupanti della stessa cella...

Nella cella dove stavo eravamo in 9, ma c'erano anche celle che contenevano fino a 15 detenuti. Lì passavamo 22 ore al giorno rinchiusi. La passeggiata, peraltro in uno spazio ristretto, era consentita per un'ora la mattina e per un'altra ora verso mezzogiorno.

Il 70% dei carcerati sono persone povere che non possono pagare un avvocato. Molti non dovrebbero nemmeno stare lì per non aver commesso gravi crimini. Magari avevano rubato per fame... Dovrebbero, quindi, scontare delle pene alternative, ma non sanno a chi rivolgersi e nessuno si occupa di loro. Il restante 30% è costituito da quelli che hanno compiuto reati gravi ed anche loro se la passano piuttosto male...

Nel 2014, dopo aver subito l'ultima punizione in quella cella, denunciai l'accaduto alla procura della Repubblica.

La cella non numerata era da noi chiamata " 'o zero". Lì i detenuti venivano denudati e picchiati con manganelli, con calci, pugni, asciugamani bagnati...

Dopo la mia denuncia, ne arrivarono al giudice altre 150 da parte di detenuti che erano stati massacrati di botte. Si calcola che nell'arco di 30 anni nella cella zero siano passati 50.000 detenuti!..

Il giudice mi convocò per chiedermi perché fossi stato portato in quella cella. Gli risposi che una delle due volte fu perché ci avevano sorpresi a giocare con delle carte napoletane non consentite in carcere. In cella eravamo in nove e fummo tutti portati al piano terra dove il capo posto voleva a tutti i costi sapere a chi appartenesse quel mazzo di carte. Non apparteneva ad alcuno dei presenti perché era stato lasciato da un detenuto trasferito in un altro carcere. Quindi, nessuno si accusò o fu accusato di essere il proprietario di quelle carte.

Nonostante ciò ci portarono ad uno ad uno nella cella zero. Tra di noi c'era un detenuto anziano ultrasettantenne che chiamavamo "zio Gaspare". Era di Volla. Non aveva mai giocato a carte perché non lo sapeva fare. Un giovane compagno di cella che tentò di spiegare che zio Gaspare con quelle carte proprio non c'entrava, ebbe uno schiaffo così violento da ritrovarsi col labbro spaccato perché, a detta del capo posto, non si sarebbe dovuto permettere di fare... l'avvocato difensore del vecchietto che così subì la stessa sorte degli altri nella cella zero.

Quando dopo essere stato picchiato passai dal medico, questi mi fece alzare la maglietta e abbassare i pantaloni. Mi chiese se avevo ferite o fratture e alla mia risposta negativa, mi congedò raccomandandomi di dire, se eventualmente mi fosse stato chiesto, che i lividi me li ero procurati cadendo per le scale.

Quella sera tornammo in cella come degli automi e ad uno ad uno facemmo la stessa cosa: ci guardammo i lividi nello specchietto e poi ci infilammo sotto le coperte senza dire una parola.

Quella notte dentro di me infierii contro la società, le istituzioni, il governo, i politici... Mi chiedevo come fosse possibile permettere tutto quello che ci era stato fatto...

Ora, come garante, posso entrare nelle carceri, cosa che ho fatto due giorni fa a Poggioreale e a Secondigliano. Oggi sono stato chiamato dalla Direzione del carcere di Poggioreale e sono stato informato che ci sono centinaia di domandine di detenuti che vogliono parlare con me.

Quel carcere è una specie di campo di concentramento con muri scalcinati e docce fatiscenti che, vecchio ed obsoleto,  andrebbe abbattuto. Il carcere di Secondigliano è migliore.

I detenuti mi chiedono aiuto perché sanno che posso capirli ed io voglio essere qualcosa di più di un garante. Voglio conoscere quelli che non sono in grado di pagarsi un avvocato ed aiutarli anche economicamente. C'è già uno staff di avvocati che si sono messi a disposizione gratuitamente. Vorrei anche fornire biancheria e vestiario ai carcerati.

Due anni fa, entrai nel carcere di Poggioreale insieme ai radicali in visita. Incontrammo un ragazzo in una cella di isolamento. Gli chiesi perché fosse lì e il ragazzo rispose che nessuno lo voleva come compagno di cella perché non aveva soldi. La crisi si fa sentire anche in carcere. Solo una minoranza oggi dispone di risparmi. Quel ragazzo, stanco di essere respinto ripetutamente da tutte le celle, se ne era andato in una di isolamento. Avrei desiderato dargli un piccolo capitale per farlo accettare dagli altri e poi pregare il direttore del carcere di farlo lavorare e guadagnare qualcosa. Essere respinto in quel modo non è umano!

Quando nel 1982 arrivai per la prima volta nel carcere di Poggioreale, era in atto una guerra tra cutoliani e Nuova Famiglia sia fuori che dentro il carcere. Mi chiesero di quale delle due fazioni facessi parte. Io non appartenevo a nessuna delle due. Ero lì per spaccio di hashish. Mi chiesero allora dove abitassi e, saputo che venivo dal centro storico, fui ritenuto affiliato alla Nuova Famiglia che dominava in quel quartiere. Così fui messo in un padiglione dove c'erano boss e affiliati della Nuova Famiglia.

Io ero giovane (oggi i giovani in carcere sono la maggioranza, ma allora non era così). I giovani in carcere facevano i "foderi", cioè custodivano le pistole dei loro boss.

Quando uno di quei ragazzi uscì dal carcere, il boss del mio padiglione mi chiamò per sostituirlo a custodirgli la pistola. Cercai di rifiutare perché non avevo mai visto una pistola né sapevo come usarla, ma il boss mi disse che dovevo semplicemente tenergliela e all'uso ci avrebbe pensato lui (fortunatamente non fu mai usata).

All'epoca il carcere non era gestito dall'amministrazione penitenziaria, ma dai camorristi. Un giorno arrivarono dei carabinieri, i NOCS, che perquisirono le celle, ci fecero spogliare, ci picchiarono, ci fecero correre nei corridoi inseguiti dai cani. Un detenuto fu morsicato nelle parti intime. Ricordo che non ebbe il coraggio di guardarsi. Chiese a noi di farlo... Dopo ci portarono nelle "compresse" che erano depositi in cui venivano riposte suppellettili varie. Furono svuotate e noi fummo messi lì e tenuti per due settimane. Eravamo quasi un centinaio di detenuti.

In ogni padiglione c'era il lavorante di sezione che ogni sera veniva a prendere la pistola che custodivo e me la riportava la mattina. I lavoranti di sezione conoscono tutto ciò che avviene in carcere. Portano i pizzini nascondendoli in bocca (i pizzini sono sempre esistiti).

Il lavorante di sezione del mio padiglione fu quindi interrogato e, messo alle strette, denunciò tutti i traffici e così anch'io fui accusato di detenzione di armi. Fui prelevato dalla "compressa", picchiato, torturato e portato incappucciato in una cella in penombra dove era stato messo un cappio e uno sgabello. Pensavano che nascondessi altre armi oltre a quell'unica pistola che avevano ritrovato e così fui minacciato di morte se non avessi parlato. Sudavo, tremavo per la paura, non riuscivo a trattenere le urine. Avevo 19 anni!... Non sapevo se quelle erano solo minacce o se mi avrebbero veramente ucciso. Di tanti impiccati a Poggioreale è difficile capire se sono suicidi o vittime...

Continuarono a torturarmi per farmi parlare, ma io non sapevo altro che il posto in cui nascondevo la pistola del boss che me l'aveva affidata. Ricordo che attraverso uno spiraglio vidi appesa al muro la fotografia di Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica e pensai che anche lui era stato in carcere...

Prima di essere nominato garante sono stato per 15 anni fuori dal carcere a protestare e a lottare insieme ai parenti dei detenuti di cui ero diventato un punto di riferimento. Non avrei mai pensato di diventare garante in seguito ad una domandina compilata da una ragazza che stava svolgendo una tesi di laurea con me. Per la verità non ci tenevo ad essere un garante perché ero un attivista e, come tale, mi sentivo più libero. Ora comandanti, ispettori e direttori mi consigliano di essere più diplomatico, ma io difficilmente potrò esserlo perché non so esserlo.

In una delle visite a Poggioreale vidi un detenuto anziano in pigiama. Chiesi al comandante che mi scortava e mi teneva sotto stretto controllo, perché quell'uomo non fosse vestito. Mi disse che c'erano due giubbini imbottiti in deposito che non potevano essergli consegnati perché precedentemente in giubbini di quel tipo era stata trovata della droga. Mi ribellai e gli chiesi di adoperare i cani o qualsiasi altro mezzo per accertarsi della presenza o meno della droga nei giubbini e di dissequestrarli in caso di esito negativo e darli al povero vecchio. Mi offrii di dargli il mio cappotto, ma mi fu risposto che non erano tenuti a distribuire cappotti.

Qualcuno precedentemente aveva realmente messo della droga nei giubbini che entravano nel carcere, ma lì se uno sbaglia, pagano tutti. La polizia penitenziaria è ruvida, diciamolo pure: è fascista. Ce l'hanno con chi ha sbagliato e per questo sta in carcere a dare fastidio a loro.

Per espletare il mio compito di garante (non retribuito) devo spesso assentarmi al lavoro per andare dove vengo chiamato e ho fatto presente questo al mio datore di lavoro. Essere garante è diventata per me un'autentica missione perché nelle carceri ci sono tanti poveracci, mica ci sono i politici corrotti che hanno magari rubato milioni! Ne avrò visto al massimo un paio nei miei 22 anni di galera. I politici ci vanno per un po', poi vengono messi agli arresti domiciliari.

A mio carico sono anche le spese di trasporto per recarmi alle carceri o dove vengo chiamato. Mi arrivano le richieste delle famiglie dei detenuti che mi chiedono di andare a constatare la condizione dei loro cari perché magari uno voleva impiccarsi, un altro mostrava segni di percosse, ecc.

La violenza nelle carceri non scoppia solo tra detenuti. Recentemente sono stato chiamato da un giornalista perché si era saputo che un detenuto aveva assalito una guardia penitenziaria nel padiglione Milano. La situazione in quel luogo è terribile. Stanno meglio i terremotati. Si sente puzza di carne umana putrefatta. Le docce sono costituite da getti d'acqua che escono da buchi nei muti fradici. la tonaca cade a pezzi. Niente viene riparato. D'inverno tra quelle mura umide ci si gela. Non esiste riscaldamento.

Naturalmente ho rimproverato il detenuto per quello che aveva fatto, ma bisognava chiedersi perché lo aveva fatto. Io prevedo che a Poggioreale succederà qualcosa di grave perché i detenuti sono allo stremo. Ho visto celle piccolissime in cui sono ammassate anche 15 persone. E' disumano!

Se in una cella che può contenere 4 persone se ne mettono il doppio, succede che essendo solo quattro le bilancette, persino i vestiti di ricambio non trovano posto e vengono messi sotto i letti in sacchi della spazzatura.

Vorrei far capire alle autorità che chi esce dal carcere dove ha vissuto per anni in queste condizioni, è molto arrabbiato ed è più criminale di quando vi è entrato.

Onestamente devo dire che prima di essere nominato garante mi sentivo molto più libero. Ora posso entrare nelle carceri, ma prima protestavo fuori più liberamente.

Alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia, ho detto che nelle carceri la situazione non è più sostenibile, che le celle sono sovraffollate anche perché i tribunali hanno una mole di lavoro che non riescono a smaltire. A volte basta un documento che non arriva in tempo e l'uscita dei detenuti dal carcere è rinviata. Lei ha fatto da paciere tra me e la polizia penitenziaria che non mi accettava. Persino Salvini è venuto nel carcere di Poggioreale a dire che io non ero all'altezza di fare il garante. La Presidente, invece, ha preso atto della mia nomina, ma mi ha detto di non avvicinarmi troppo ai detenuti e di non parlare... troppo con loro. A questo punto mi sono ribellato perché se sono il garante dei detenuti è di loro che mi devo occupare. A Poggioreale mi sono ostili. Quando parlo con un detenuto, i comandanti mi si mettono accanto e tendono l'orecchio per sentire che cosa ci diciamo.

Ma io vado avanti perché, come ho già detto, ho assunto questo incarico come una missione da compiere.

 

ARISTIDE DONADIO

 

Innanzitutto devo dire che sono contento di essere qui e di trovarmi a presentare questo libro davvero coraggioso che va letto perché contiene denunce di situazioni paradossali che noi dall'esterno non siamo neanche in grado di immaginare. E' importante che ci siano queste interazioni culturali, come i testi sul carcere in Italia.

Lo dice anche Carmelo Musumeci, un ergastolano che ora si trova in una condizione di semilibertà, dopo essere stato condannato ad un ergastolo ostativo che pochi conoscono. Non tutti gli ergastoli sono considerati "all'italiana", cioè che si interrompono dopo meno di 30 anni di carcere. Dal 1992, dopo gli attentati a Falcone e a Borsellino, esiste l'ergastolo ostativo e noi, come i giapponesi che ignorano che nel loro paese esiste la pena di morte, non sappiamo che in Italia esiste questo tipo di ergastolo che Papa Francesco ha definito "pena di morte nascosta". Chi viene condannato all'ergastolo ostativo deve morire in carcere senza alcuna possibilità alternativa.

Carmelo Musumeci, dunque, dice che è bene che ci siano queste testimonianze perché in Italia non esiste ancora una letteratura carceraria, cioè mancano i resoconti che effettivamente formino nell'opinione pubblica quella coscienza comune, quella coscienza civica per cui la condizione carceraria non può essere un corpo estraneo alla società. Quello che accade nelle carceri ci torna indietro in tanti modi diretti ed indiretti. Allora è importante che si formi questa cultura carceraria.

Qualche esperienza in merito è stata fatta negli anni '90 in Italia con la cooperativa "Sensibili alle foglie" (fondata da Renato Curcio) formata da detenuti ed ex detenuti che curano libri e racconti sulla realtà carceraria italiana e lì vi lavora anche Nicola Valentino delle Formazioni Comuniste Combattenti, ex ergastolano, ora in libertà condizionale. Di Valentino c'è il libro "Ergastolo", una denuncia di questa pena che viene fatta per la prima volta. C'è poi il libro di Beppe Battaglia, volontario carcerario, "Carcere e cittadinanza" che parla del rapporto stretto in un paese tra le condizioni carcerarie e il livello di civiltà e di cittadinanza.

Sempre di Beppe Battaglia c'è "Le tre libertà" da poco uscito e altri libri di Carmelo Musumeci interessantissimi come "L'uomo ombra" e "Nato colpevole" che ci fa capire come noi viviamo in una società che crea una quantità di situazioni al limite dell'esistenza della dignità umana a causa di uno Stato assente per una volontà precisa, politica, di creare delle sacche di povertà, un esercito di disoccupati e di manovalanza e, per quello che sappiamo, queste cose sono addirittura voti di scambio disponibili, forniti dalla camorra che specula proprio sulle sacche di povertà. Quindi, non può essere casuale questa latitanza dello Stato.

Allora, ci sono situazioni criminogene, di sperequazione, di povertà voluta, mantenuta, studiata, perché si creino, appunto, delle situazioni funzionali ad un certo sistema. Quindi, non è solo criminogena la società, ma è criminogena la situazione carceraria, è criminogeno un carcere studiato evidentemente per aumentare il tasso di criminalità e di devianza e non per smontarlo.

Il cardinale Carlo Maria Martini, una figura di alto spessore, un grande intellettuale, in un testo scritto insieme a quattro mani con l'Associazione Antigone "Il vaso di Pandora" (andato esaurito) dice proprio questo e, cioè, di come il carcere sia concepito appunto come un vaso di Pandora, un contenitore negativo in cui mettere tutti gli scarti della società, quelli di cui non è stata capace di farsi carico, altrimenti non si spiegherebbe come il 30% dei detenuti siano legati a reati dovuti alla tossicodipendenza e, quindi, non dovrebbero trovarsi in carcere ma in altre realtà, e un altro 30% dei detenuti ad atti legati alla clandestinità, all'immigrazione.

Quindi, sono questioni di cui dovrebbe farsi carico lo Stato che, invece, getta nella situazione carceraria, come soluzione, tutti i mali, non solo, ma addirittura si ha l'illusione di mettere nel carcere il male in quanto tale, di poterlo così allontanare da noi, l'illusione che questo contenitore negativo possa togliere da noi quelle che sono le nostre contraddizioni, le nostre paure, i nostri fantasmi, le nostre ansie, i conflitti irrisolti...

Il carcere diventa, quindi, un luogo di proiezione per eccellenza di tutta la miseria umana di cui non siamo stati capaci di farci carico e di indagare con profondità dentro di noi. Non solo le contraddizioni sociali, economiche, politiche, ma anche, oserei dire, quelle di tipo esistenziali, psicologiche di un sistema, quello attuale, che crea sperequazioni. Abbiamo l'1% che detiene il 90% della ricchezza mondiale!

Io ho avuto una lunga esperienza della realtà carceraria come Commissario nazionale per l'educazione ai diritti umani. Mi sono occupato proprio di questioni carcerarie, delle violazioni sistemiche e sistematiche dei diritti umani. L'Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea per i diritti dell'uomo, anche recentemente, proprio a proposito dell'ergastolo ostativo, non solo, ma anche per le condizioni disumane e di sovraffollamento, tant'è che sia il 41 bis (carcere riservato alla criminalità organizzata) che l'ergastolo ostativo sono stati paragonati alla tortura cioè a condizioni inumane, crudeli e degradanti. Recita così il concetto di tortura.

L'Italia fatica ancora a rivederlo ed ha approvato in merito qualcosa di molto blando che poco ha a che fare con il concetto di cui sopra.

A dicembre scorso, con Amnesty, abbiamo fatto a Roma la prima iniziativa proprio sull'ergastolo ostativo e la dignità dei detenuti.

Anche il prof. Giuseppe Ferraro, docente di filosofia morale alla Federico II, ha avuto tante esperienze carcerarie e potrà dirci delle cose interessanti. Prima di cedergli la parola vorrei dire una cosa importante: la situazione carceraria è talmente penosa che non solo determina tutti gli atti autolesionistici e suicidi dei detenuti, ma fa talmente schifo (lasciatemi passare il termine) da fare male anche ai poliziotti penitenziari. Pochi dicono che si verificano suicidi anche tra i poliziotti penitenziari perché è una vita talmente brutta quella che fanno da diventare loro stessi vittime del clima che, in qualche modo, hanno contribuito a creare come per una nemesi storica o un effetto boomerang.

Le cose non vanno bene perché abbiamo forze politiche che sanno parlare molto bene alla... pancia degli elettori per ottenerne i voti. Fa molto più comodo agitare lo spauracchio del mostro, del criminale, del pericolo sociale che porta ad agire sul lato securitario, apparentemente, perché di sicurezza reale non c'è niente. In questo modo si peggiora solo la situazione.

 

 

Bisogna cominciare a fare discorsi che veramente tutelino il rispetto dell'art. 27 della Costituzione che punta alla riabilitazione del detenuto. Dovremmo avere delle carceri completamente diverse. Gandhi immaginava il carcere come un ospedale perché la cattiveria non esiste, ma esistono le condizioni di sofferenza in cui si trova un individuo. Alla fine - come dice Donald Winnicott - nell'articolo "La delinquenza come sintomo di speranza", l'atto di delinquenza, l'atto deviante è l'unico momento in cui ci accorgiamo della persona che lo compie. E' come se quella persona dicesse: "Adesso che ho fatto questo, vi rendete conto finalmente che esisto?". E' un grido inconscio, una richiesta inconscia di aiuto, ma anche un tentativo disperato di ritornare allo stato precedente alla condizione di desolazione che per tanti anni ha vissuto.

Allora il carcere dovrebbe davvero essere concepito diversamente. Lo diceva pure il magistrato di Venezia, Sandro Marchione: "Il carcere non può essere riformato. Il carcere va raso al suolo".

Il carcere va ripensato completamente. Deve essere concepito come comunità dove le celle siano aperte, dove ci sia la possibilità dell'autogestione da parte dei detenuti, dove, quindi, sia diverso anche il rapporto con l'équipe fatta da psicologi, educatori, ecc., ma in rapporto adeguato, non di 1 su 2000...

Il poliziotto penitenziario, secondo una riforma del 1990, dovrebbe essere inserito in quest'ambito educativo. Invece, preferiamo avere carceri come quelle di Poggioreale, dove la recidiva supera l'80% mentre nelle carceri comunità, la recidiva scende al 30%. Questo conviene a noi. E' un atto paradossalmente egoistico la riabilitazione del detenuto perché così non rimettiamo in circolo delle persone che tornano a delinquere, ma persone attive che vengono inserite nella società e tornano utili anche a noi.

Ancora un'ultima cosa: la formazione dei poliziotti penitenziari è assolutamente inadeguata. Ha come obiettivo l'idea securitaria, l'intervento violento. Pietro prima ha dimostrato di essere rimasto intriso del linguaggio del carcere quando ha detto più volte che ai detenuti viene chiesto di fare la "domandina" (e non la domanda), termine di un linguaggio infantile che viene fatto usare a persone adulte che stanno comunque pagando per quello che hanno fatto e che meritano rispetto. C'è questa infantilizzazione, questa deumanizzazione del detenuto. Pietro, nel suo libro, dice anche che in molti casi ai detenuti non è consentito guardare negli occhi del poliziotto, ma bisogna che tengano lo sguardo basso. Che tipo di riabilitazione allora i detenuti possono avere? Siamo in un paese in cui il codice penale (il codice Rocco) è stato fatto nel ventennio fascista e nessuno ha mai pensato di riformarlo. La formazione dei poliziotti penitenziari mira alla violenza, non alla rieducazione dei detenuti. Io ho provato in qualità di Commissario di Amnesty ad inserire un modulo formativo che puntasse ad un intervento non violento, cioè alla prevenzione del conflitto e all'intervento non violento nella situazione di conflitto.

Purtroppo, in Italia non siamo pronti a questo. C'è ancora una cultura fascista. Lo dice anche lo storico Giuseppe Aragno. Una cultura che punta alla deumanizzazione, al concetto di potere come dominio e sopraffazione e non inteso come messa al servizio degli altri dei propri doni, non come cooperazione, non come costruzione di un agire comune... Questo è il tipo di fascismo che dobbiamo debellare, altrimenti torneremo ad avere condizioni di deumanizzazione e violenza strutturale meditata e voluta proprio come disegno politico.

Bisogna quindi puntare alla formazione dei poliziotti penitenziari reimpostandola completamente. Questo dovrebbe essere un obiettivo prioritario!

Ed infine: non esistono selezioni né test attitudinali per reclutare i poliziotti penitenziari. Così non va bene perché sono poi proprio loro a pagarne le conseguenze. Ci sono anche poliziotti penitenziari che fanno onore alla loro divisa e conoscono bene il loro mestiere, ma vengono a trovarsi in pochi in situazioni talmente criminogene che la loro buona volontà non serve a niente.

Quindi, ben vengano iniziative come quelle di Pietro Ioia e ben venga la possibilità di lavorare insieme a lui che è stato coraggioso ad accettare l'incarico di garante. Ma bisogna anche dire che è stato coraggioso il sindaco a fare una nomina scomoda soprattutto per gli addetti penitenziari.

Grazie per l'attenzione!

 

GIUSEPPE FERRARO

 

Io starei ad ascoltare Pietro e farei a meno di parlare perché parlare del carcere per chi lo conosce è una cosa estremamente difficile in quanto si finisce col parlare delle persone che sono nelle carceri. Per questo è importante quello che dice Pietro perché lui non parla del carcere, ma delle persone che vi stanno dentro. Questa è una prospettiva completamente diversa ed è importante ancora di più perché il diritto dei detenuti è quello di prendere la parola, di avere voce, ma non semplicemente per dare un parere rispetto a questo o a quello, ma per dire: "Esisto! Ci sono!". Però la gente fuori non sa niente...

Io frequento il carcere da molto tempo, forse quasi da 30 anni per cui settimana per settimana, la mia vita è scandita dagli incontri nelle carceri. Le conosco tutte ormai e non solo in Italia. Si verifica un tam tam ogni volta per cui sanno già quando arrivo. Questo è divertente (fino ad un certo punto).

Quindi, dicevo che è difficile parlare del carcere senza aver visto dei carcerati, senza aver sentito le voci di quelli che hai incontrato. E allora che dire? Comincerei da questo: in carcere sono tutti... meridionali. Una volta ne ho incontrato uno che parlava con accento settentrionale. Era di Bergamo, però la sua origine era calabrese.

Negli ultimi tempi, nell'incontro con i detenuti mi capita di dire una cosa che mi sorprende: "La pena deve valere la pena". La pena, se non vale la pena, è una punizione. Anche andare a scuola è una... pena, Però poi si dice: "Ne valeva la pena!". Ma uno che esce dal carcere non potrà mai dire: "Ne valeva la pena!" perché nel carcere la pena non vale la pena, cioè non è un diritto.

Questo è un discorso un po' strano, ma la pena deve essere un diritto: quello di poter ripensare se stessi, quello di poter riflettere su ciò che si è stato e su quello che si vuole diventare recuperando la propria autenticità.

Sapete qual è la cosa più toccante su cui pensare per i detenuti? L'infanzia, i genitori, la famiglia. E' da lì che scoprono i valori che hanno. Lo verifico negli incontri bellissimi, straordinari che facciamo e ci tengo a dire che non ho mai preso un centesimo, ho sempre rifiutato un compenso perché in questi casi non devi prendere niente in quanto la sofferenza non può essere assolutamente un mezzo di guadagno.

Se un medico guadagna sulla sofferenza in modo spietato, non è un medico, ma solo uno che fa soldi e basta, così come quello che guadagna su un progetto per i detenuti e non dà loro niente è meglio che se ne stia lontano dal carcere.

La prima domanda che mi fanno i detenuti è questa: "Ma tu che sei venuto a fare qui? Non sei un avvocato, non sei un magistrato, non sei un assistente sociale, non sei uno psicologo... Che cosa ci fai qui?". La seconda domanda è: "Come mi vedi?".

Ma ritorniamo alla pena che deve valere la pena. Per me questo è un punto importante. La pena in carcere non è un diritto ma una punizione. Uno Stato di diritto si misura esattamente dalle sue carceri e dalle sue scuole. Fate attenzione a questo perché è importante: quando le carceri saranno scuole e le scuole non saranno carceri, il grado di democrazia di quel paese avrà raggiunto il suo punto più alto.

Attualmente le carceri non sono scuole e, invece, dovrebbero essere scuole di libertà.

C'è una logica sottile sul carcere sulla quale si sorvola: il carcere non è fatto per i detenuti, ma vale per quelli che stanno fuori perché il reato non sia commesso in futuro. La pena carceraria non toglie il reato, non toglie quello che è stato fatto, non si preoccupa di questo, ma di quello che non si deve ripetere.

Quando il carcere si chiude dietro i detenuti, non ci si rivolge loro più per niente. Non servono a se stessi. E' lo stesso che essere eliminati.

Questa è la logica del carcere. E' lo stesso motivo per cui ad ogni campagna elettorale, trovate chi dice: "Ci vuole il carcere! Mandateli in galera!". Però del carcere non si sa niente. Si pensa che sia una cosa, un istituto. Nel carcere ci sono tante carceri: c'è l'ergastolo ostativo, la S1, la S2, la S3, la sex offenders, ecc.. E non c'è solo il padiglione Milano, ma anche il padiglione Genova, a parere mio, più a rischio degli altri, c'è l'Avellino che è il più terribile... Lì ho fatto degli incontri anche con le famiglie andando nell'area verde che non è stata mai usata.

Nel carcere non ci sono solo i detenuti, ma tante altre persone. Quante ne ho conosciute! Quanti figli che hanno visto portare via il padre di notte, quanti di questi casi! E' bello, quando lungo il percorso che facciamo, qualche padre mi dice: "Professore, dovete conoscere mio figlio!". Proprio ieri Bartolo, dal carcere di Casal di Principe, mi ha fatto questa domanda. Ci andrò anche se mi dicono di stare attento a fare simili incontri. Ma io ci vado perché il carcere è questo: non si deve sapere niente e non devi neanche capire che lì ci sono famiglie e relazioni. Io in carcere ho capito (e l'ho dovuto capire per forza) che la libertà è fatta di legami. E' lì che l'ho capito. Come avrei potuto spiegare la libertà a chi sta in galera? Certo mi verrebbe facile dire che la libertà fa parte di quei valori, di quelle cose talmente importanti che sappiamo tutti, però come il vero amore e la vera amicizia tu li conosci solo quando li hai perduti, così apprezzi la libertà quando non ce l'hai.

C'era un detenuto, ora defunto, che mi diceva: "Professore, lo sappiamo noi che cos'è la libertà, noi che stiamo qui dentro. Quando si è fuori, non si sa che cosa sia".

E' in carcere, dunque, che ho capito che la libertà ha dei legami. C'è uno spiraglio di libertà per i detenuti ed è la qualità dei propri legami che si trova nell'aspetto delle compagne, dei figli, ecc..

Se anche ognuno di voi vuole sapere quanto è libero, deve misurare la libertà dalla qualità dei legami. Se la qualità è pessima, se non volete stare con una persona, la misura scende.

Ma in carcere ci sono dei legami? In carcere c'è una fratellanza subita, non agita. C'è una solidarietà straordinaria. Vi potrei raccontare tantissime e bellissime storie a proposito, come quella del ragazzo schiaffeggiato per aver difeso zio Gaspare che ha raccontato Pietro.

Il problema è che il detenuto non deve parlare, non deve avere voce. L'importante è proprio quello di non conoscere la sua voce. Paradossalmente, portare la voce del detenuto qui è molto più importante che sentirla in galera. I confini di una città sono confini di voci. Una città arriva fin dove ha parole. Oltre quello, è finita.

La gente in carcere non può parlare. Una volta, un boss dei quartieri spagnoli mi ha detto: "Professore, ho capito qua dentro di avere dei diritti. Prima non sapevo proprio che esistessero dei diritti". Il paradosso è, quindi, quello di apprendere in carcere che esistono dei diritti che... non hai! Anzi, capisci i diritti proprio perché non li hai. Ai miei studenti, quando spiegavo l'etica dicevo: "Per capirla, bisogna andare dove l'etica non c'è". E la stessa cosa vale per i diritti che si capiscono solo dove non ci sono. Questo è il punto!

Perché allora vado nelle carceri? Io sono uno di questa città che ha studiato tanto. Ci si chiede se quello che si sta facendo deve essere continuato ad essere fatto o se, invece, si deve cambiare mestiere. Siccome la filosofia si interroga sulle questioni ultime, tu devi portarla nei luoghi ultimi, sui confini per capire. Se la filosofia non ti serve per farti capire, è meglio buttarla via come un giocattolo rotto perché non serve a niente. Dunque, ho studiato e tutto quello che so è mio, ma non è di... me! Questo è difficile! Quello che so me lo hanno insegnato, l'ho letto... Io non potrò mai restituire il sapere a chi me lo ha dato e che ora è mio. Ma il sapere è un possesso senza proprietà. Va restituito a chi non ce l'ha, a chi non l'ha mai avuto. Il sapere, come l'amore è senza proprietà: "Sei mia, ma non di me"... Se l'amore diventa una proprietà, diventa criminale e questo ci spiega tante cose. Il sapere che diventa proprietà è quello del professorone che dice: "Adesso vi dico io come stanno le cose" e le dice a chi già le sa per poter dimostrare di saperne di più.

Allora ripeto: il sapere è un possesso senza proprietà che va restituito a chi non ce l'ha. Nelle carceri io vado esattamente per questo. Non vado a fare assistenza sociale né cado nel rischio (che c'è) di fare del detenuto un eroe. Di fatto... lo è se riesce a stare in una cella del padiglione Avellino a sentire la puzza particolare che c'è.

Nelle carceri ci sono anche bambini, non si finirebbe mai di raccontare... Bisognerebbe vedersi anche solo una volta a settimana per raccontare ogni volta un caso e fermarvisi sopra.

Ora mi viene in mente una bambina, a Foggia... Una bambina in galera... Veramente assurdo!

Quindi, è difficile non correre il rischio di considerare il detenuto un eroe sapendo che, effettivamente, bisogna essere degli eroi per stare lì dentro perché chi entra nelle carceri, da colpevole diventa vittima. Succede questo rovesciamento... Basta poco tempo per diventare una vittima del sistema ed allora capisci che tu già prima stavi in carcere, un carcere a cielo aperto.

Un detenuto, Antonio, mi ha raccontato una cosa sconcertante e cioè che da piccolo dormiva in un cassetto del comò ('o tiraturo). Ma parlava degli anni '70, non degli anni del dopoguerra dove tanti bambini dormivano così. E' quasi naturale che poi sia finito in prigione.

Bisogna lavorare sui detenuti. Vi rendete conto, allora, che il carcere dovrebbe diventare una scuola in cui ritrovare se stessi, diventare quello che autenticamente si è.

Il carcere si basa su una cosa: il detenuto è visto, ma non può vedersi; è guardato, ma non si può guardare. In carcere non ci sono specchi, solo specchietti. Non puoi vederti per intero, non puoi renderti conto del tempo che passa sul tuo corpo.

Ricordo Carmelo che, uscito dal carcere, andò in un supermercato con la figlia a comprarsi un pantalone. Se lo doveva misurare nello spogliatoio. Entrò, ma uscì subito dicendo di averlo trovato occupato da un vecchio. Ma nello spogliatoio non c'era nessuno! Il vecchio era la sua immagine riflessa nello specchio. Non si era riconosciuto perché nel carcere non si era mai potuto vedere.

La pena del carcere è quella di non avere alcuna possibilità di riflettere. E' paradossale, ma Pietro si è autoriflesso nel momento in cui ha ingaggiato una lotta contro le istituzioni. Se quelli che stanno nelle carceri avessero una politicizzazione, sarebbe veramente un casino e ci sono stati momenti in cui questo casino c'è stato.

In carcere bisogna vedere le persone come sono. La prima volta che mi mostrarono un disegno molto bello di un minore, mi dissero, oltre al suo nome, tutto quello che aveva fatto. Io non lo volevo sapere. Per me era una persona. L'ho incontrato e, sapendo quello che aveva fatto, mi è stato difficile. Per questo non volevo sapere niente perché l'autenticità è incontrarsi nel punto in cui ci si trova senza alcun pregiudizio, come sta avvenendo tra me e voi in questo momento.

Se voi pensate al fatto che sono un professore, io non voglio questo. Non ho fatto niente. L'innocenza è il momento in cui noi viviamo aprendoci nella nostra autenticità, senza pensare a cosa abbiamo fatto noi e a cosa hanno fatto gli altri. Non si può fare una distinzione tra il detenuto e la persona libera.

Ricordo un mio amico che faceva l'educatore per i sex offenders. Gli chiesi come facesse a stare lì con pedofili, con persone che avevano ammazzato i bambini. Lui mi rispose: "Potrei farlo anch'io. Mi potrebbe succedere...".

E' una possibilità che può succedere ed allora noi dobbiamo stare con i detenuti come vorremmo tutti quanti stare di fronte a chi incontriamo come se fosse quello il momento, come se fosse quella finalmente l'eternità, per così dire, come se il tempo si annullasse.

Ricordo Antonino che ogni volta mi chiedeva la penna. Gli chiesi perché e lui mi rispose che quando andava a scuola non aveva mai la penna. Era la maestra che gliela dava. Lui a scuola arrivava con la borsa a rete della spesa della mamma. Fu Antonino che mi disse: "Noi queste cose le conoscevamo, ma non sapevamo dirle. Non sapevamo di saperle...". E ci ha portati ad un dialogo di questo tipo.

Sono momenti straordinari. La storia di Carmelo è importante. E' quello che ha parlato fuori del carcere. Lui mi intercettò dopo un video proiettato in carcere e da lì sono nate tante cose. Parlare fuori è quello che ti libera. Liberare la voce delle persone detenute è ritrovare per loro la libertà.

Qual è la ragione allora per cui vado nelle carceri? Il sapere. Il sapere ha la sua ragione. E' la stessa dell'amore: va restituito a chi non ce l'ha, a chi non l'ha mai avuto. Tutto quello che io so del carcere è mio, terribilmente mio...

Io non parlo mai di filosofi. In carcere facciamo filosofia... allo stato puro. Un giorno, però, citai Kant che diceva: "Il cielo stellato sopra di me è la libertà, è la legge interiore dentro di me". Io mi chiedo come fa a capire uno che non vede il cielo stellato, che la legge morale è dentro di sé. In carcere il cielo stellato non si vede. Il cielo del carcere è il soffitto...

Ma un detenuto disse che ricordava il cielo stellato dell'Aspromonte dove di notte non poteva accendersi nemmeno una sigaretta perché era ricercato dai carabinieri. Mi disse che dovevo andare lì con lui a guardare il cielo stellato. "Ma quando?" - gli chiesi. Lui era stato condannato al carcere ostativo. Come lui tante persone non sono mai più uscite dal carcere e alcune vi sono morte.

Ma lui, per consolare me, mi disse che il suo avvocato avrebbe rifatto la causa e lo avrebbe fatto uscire. Però lui il cielo stellato lo aveva già visto...

Dunque, nel carcere la pena non vale la pena, non è assolutamente un diritto e basta.

E' falso dire che il carcere è rieducativo perché non lo è. Fate conto che l'articolo 27 non ci sia...

 

 

 

 

 

 

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